Chi soffre di questa malattia rara deve sottoporsi a trasfusioni periodiche. Ma trapianto di midollo, nuovi farmaci e la terapia genetica consentono di ridurne il numero.
Al centro dell’attenzione durante l’ultimo congresso dell’American Society of Hematology tenutosi a San Diego, in California è stata l’anemia mediterranea o beta-talassemia, per la quale sono emerse nuove importanti novità.
Stando alle ultime statistiche disponibili, in Italia vivono tra i 7mila pazienti con beta-talassemia severa (e quindi trasfusione-dipendenti), a cui se ne aggiungono tanti altri con una malattia in forma meno grave, che quindi devono sottoporsi a terapie meno impegnative (ovvero trasfusioni più dilazionate nel tempo), che non impediscono una vita pressoché normale. «La beta-talassemia è la principale causa di anemia congenita al mondo. Viene chiamata anemia mediterranea perché storicamente la patologia era più diffusa Paesi che si affacciano sul Mediterraneo (in Italia è presente soprattutto nelle regioni meridionali, in Sardegna, in Sicilia e nel Delta del Po)». Dalla metà degli anni Settanta, i casi sono molto diminuiti. Ciò grazie alla diffusione nelle «zone ad alto rischio» dello screening e della diagnosi prenatale. Oggi l’incidenza e la prevalenza sono nettamente maggiori in altre parti del mondo, ma con il fenomeno migratorio in atto i numeri stanno di nuovo salendo anche in Europa. «Nel nostro Paese, i nuovi nati all’anno sono poche decine. Anche se, grazie all’arrivo di cure sempre più efficaci, negli ultimi tempi sono sempre più le coppie che decidono di avere ugualmente un bambino malato, consapevoli del fatto che potrà avere comunque una buona qualità di vita».
Ecco le principali novità.
La terapia genica
«Chi ne soffre in forma grave è costretto a ripetute trasfusioni di sangue per tutta la vita – spiega Maria Domenica Cappellini, responsabile del Centro Malattie Rare alla Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico e Università di Milano -. La ricerca punta a trovare strategie di cura efficaci, che possano anche migliorare la qualità di vita dei malati, riducendo il numero di trasfusioni necessarie. «È quanto stiamo riuscendo a fare, ad esempio, con la terapia genica, che su un numero per ora ristretto di malati ha consentito di raggiungere la totale indipendenza dalle trasfusioni (nei più giovani) o una significativa riduzione della frequenza. E vanno in questa direzione anche gli esiti dello studio presentato al convegno americano su un nuovo farmaco».
Nuove prospettive
Un’altra buona notizia arriva da un’ulteriore indagine presentata a San Diego da Emanuele Angelucci, direttore Ematologia all’ospedale Policlinico San Martino di Genova, che ha coordinato un team di specialisti internazionali: «Abbiamo raccolto e analizzato i dati del Registro europeo sui trapianti di midollo osseo effettuati dal gennaio del 2000 a dicembre 2017 – chiarisce Angelucci, che anche è vicepresidente della Società Italiana di Ematologia -. È il registro più ampio del mondo (perché afferiscono anche tutti i Paesi stranieri, ad eccezione di Stati Uniti, India, Indocina e Cina) e i casi presi in esame sono moltissimi: quasi 4 mila giovani malati di età inferiore ai 18 anni che hanno eseguito un trapianto, la terapia messa a punto negli anni Ottanta nel nostro Paese e poi esportata in tutto il mondo, che rappresenta a oggi l’unica (e ampiamente disponibile) possibilità di guarigione completa dalla beta-talassemia. Gli esiti della ricerca ci danno due importanti conferme: primo, se il trapianto è da un donatore familiare compatibile e viene effettuato nei giovani pazienti dipendenti da trasfusione prima dei 14 anni, le probabilità di successo sono ottime, si sono ottenute guarigioni in oltre il 90 per cento dei casi. Secondo, se il trapianto avviene dopo questa età e da un donatore alternativo, le percentuali di riuscita sono inferiori».
Luspatercept
Alla base della talassemia c’è un «difetto» genetico che porta ad avere una eritropoiesi inefficace: ovvero, in pratica, le cellule staminali nel midollo sono «danneggiate» e non riescono a produrre una quantità adeguata di globuli rossi. È questo che obbliga i pazienti a continue trasfusioni di sangue che vanno eseguite in ospedale all’incirca ogni 20 giorni, per tutta la vita. «Una sperimentazione presentata al meeting di San Diego – spiega Cappellini, coordinatrice principale del trial a livello mondiale – ha coinvolto 336 pazienti in media trentenni e dimostra che un farmaco (Luspatercept) rimuove uno dei meccanismi responsabili della mancata maturazione dei globuli rossi e riduce in modo significativo il fabbisogno trasfusionale dei malati. Diminuisce così anche un altro problema collegato alle trasfusioni: l’eccessiva quantità di ferro che si introduce nell’organismo dei pazienti, che devono poi sottoporsi anche alla ferro-chelazione, ovvero a cure specifiche per “rimuovere” il ferro di troppo, che altrimenti si accumula negli organi causando gravi danni.