Per una parte dei pazienti con beta talassemia si sta per aprire la possibilità di una cura definitiva. Il comitato di esperti dell’Agenzia europea dei medicinali ha dato parere positivo all’approvazione della prima terapia genica che agisce sulla causa eziologica di questa malattia. Il prodotto, che una volta approvato sarà posto in commercio con il marchio Zynteglo, è stato sviluppato dalla biotech americana blubird bio.
Per comprendere meglio i dettagli della nuova terapia, il suo funzionamento, come deve essere somministrata e come può migliorare la vita delle persone con beta-talassemia, riportiamo uno stralcio della breve intervista al direttore medico dell’azienda, la dottoressa Gabriella Pasciullo (leggi l’articolo completo su pharmastar.it)
Prima di tutto, ci spiega in cosa consiste l’alterazione genetica alla base della beta talassemia?
La malattia è caratterizzata dal malfunzionamento, totale o parziale, della catena beta dell’emoglobina. Come noto l’emoglobina è la proteina responsabile del trasporto dell’ossigeno attraverso tutto il nostro corpo. Ci sono due tipi principali di talassemia, alfa e beta, dal nome delle due catene proteiche dell’emoglobina che possono essere affette dall’errore genetico: in Africa è più diffusa l’alfa talassemia, mentre nel bacino del Mediterraneo è più diffusa la beta talassemia (detta anche anemia mediterranea).
Nei pazienti con beta-talassemia, sono state osservate circa 200 possibili anomalie del gene che codifica per la catena beta dell’emoglobina. L’emoglobina è formata da 4 catene, due alfa e due beta. In funzione del tipo di mutazione a livello genico, si possono osservare una forma in cui entrambe le catene beta sono difettose, la cosiddetta B0, in cui l’organismo non produce per niente la catena beta dell’emoglobina, e la forma B+ nella quale una delle due catene è funzionante e quindi in parte compensa il deficit, anche se la malattia rimane in molti casi trasfusione dipendente, ovvero la forma più grave. Il fenotipo, cioè l’espressione clinica della malattia, è legato all’omozigosi od eterozigosi, cioè alla presenza o meno della mutazione su entrambi gli alleli, piuttosto che alla mutazione di per sé. Ecco perché possono esserci forme più blande di malattia e forme più gravi.
Parliamo adesso della nuova terapia genica per la beta talassemia. Come agisce?
E’ una cosiddetta ‘gene addition’, cioè la sostituzione di un gene malfunzionante che in questo caso è quello che codifica per la catena beta dell’emoglobina che nei pazienti con beta talassemia risulta difettoso. Il gene si trova sul braccio corto del cromosoma 11. In pratica si introduce nell’organismo una forma prodotta artificialmente del gene che codifica per la beta emoglobina. Per integrare il gene si usa un vettore lentivirale, che fa da carrier, costituito da un virus dell’Hiv disattivato e reso innocuo. Il virus però mantiene la capacità di ‘infettare’ la cellula ospite per replicarsi.
Il gene deve arrivare alle cellule capostipite dei globuli rossi, in quanto il globulo rosso, anche in condizioni normali, ha una vita breve, di circa 120 giorni, un tempo che nei talassemici è molto più ridotto. Nei talassemici i globuli rossi, di dimensioni e forma anomala (microciti), vanno incontro a morte cellulare (apoptosi) 15 volte più spesso rispetto ai globuli rossi sani.
Dopodichè il globulo rosso viene fagocitato da cellule apposite che si trovano nella milza e nel fegato. E’ quindi importante agire sulle cellule staminali ematopoietiche che sono concentrate nel midollo spinale e che, se opportunamente modificate, produrranno stabilmente una catena di beta dell’emoglobina funzionale come quella fisiologica. Queste cellule in circolo sono molto poche perchè si trovano nel midollo osseo.
Ma allora come si fanno a raggiungere e a modificare queste cellule?
Ci vuole un’operazione abbastanza complessa, per certi versi simile a quella del trapianto di midollo. Si utilizzano dei farmaci in grado di mobilizzare queste cellule, cioè di farle uscire dal midollo osseo. Dopodichè con una procedura di aferesi, cioè di filtrazione, si selezionano e si concentrano le staminali ematopoetiche. Tali cellule sono quindi prelevate dall’organismo della persona talassemica e con una procedura ‘ex vivo’ sono trattate con il virus che veicola il gene funzionate. Lo scopo è ottenere una emoglobinaT87Q, che analogamente a quella naturale, è perfettamente funzionante. Una volta che le cellule sono manipolate (con la procedura di trasduzione) vengono poi criopreservate per poi tornare al centro trapiantologico per essere reinfuse nel paziente.
Le cellule geneticamente modificate come vengono introdotte nell’organismo del paziente?
Le cellule vengono poi reinfuse nel sangue periferico del paziente. Per fare in modo che le nuove cellule che contengono il gene dell’emoglobina T87Q si insedino nel midollo spinale e inizino a svolgere il loro lavoro, cioè a produrre l’emoglobina funzionante, bisogna fare loro ‘spazio’. Ciò avviene con una procedura di mieloablazione, meno potente di quello che si usa per i trapianti, per la quale si utilizza un regime di condizionamento a base di busulfano, un agente alchilante. Non si usano i regimi aggressivi del trapianto allogenico perchè non serve la immunosoppressione, in quanto il paziente riceve le sue stesse cellule. Occorre solo fare spazio alle cellule reintrodotte affinchè possano attecchire correttamente. Passati un paio di giorni dalla procedura di mieloablazione, al paziente vengono reinfuse le cellule con l’emoglobina modificata. A questo punto inizia un periodo di osservazione in regime ospedaliero di non meno di 35 giorni. Si aspetta questo tempo sia per sapere se le cellule attecchiscono e per fronteggiare eventuali reazioni avverse sia per capire se il farmaco sta agendo. La risposta alla terapia normalmente inizia dopo un mese, un mese e mezzo, anche se è un processo paziente dipendente.
Quanti pazienti sono stati trattati finora?
In tutto sono stati trattati circa 40 pazienti, con buoni risultati. I primi pazienti sono stati trattati 4 anni fa e continuano a non aver bisogno di trasfusioni e quindi nemmeno di terapia chelante. L’azienda ha concordato con le autorità regolatorie di effettuare un lungo periodo di follow up, pari a 15 anni, per monitorare nel tempo l’effetto delle cure, la loro sicurezza e l’andamento della malattia.